Consigli per scrivere bene

Se non è familiare, diretto ad amici o parenti per scopi pratici o non è un testo di diario, ogni scritto dovrebbe essere composto con cura. Se si usano le prime parole che vengono in mente per esprimere una scena vivace, il testo quasi certamente non sarà vivace. Questo, perché la vita della pagina non è, non può essere la vita della vita reale. Anche il tempo sulla pagina scritta cambia: si dilata o si abbrevia.

Perciò – a meno di non essere veri genii – per produrre un racconto o un romanzo di buona qualità dobbiamo vagliare le parole (in arte non ci sono sinonimi; lo scrittore deve trovare il termine giusto in ogni contesto). Certo, se si scrive per riempire un foglio bianco si evita la fatica, ma il risultato ne risentirà.

Io non ho alcuna vergogna a dire che ci ho messo quarant’anni per scrivere piuttosto bene. Eppure, anche ora ho bisogno di parecchio tempo per stendere un racconto che mi soddisfi davvero. L’ultimo racconto pubblicato, dal titolo “Danzare fra il buio e la luce Una cura dell’anima”, l’avevo iniziato ventiquattro anni anni fa, e quasi dimenticato. All’inizio del 2022 l’ho ripreso e cambiato moltissimo (è su base autobiografica, e quanto è mutata la mia vita da allora!). Dopo tanta fatica sono contenta: ho fatto un buon lavoro. (Ma non soddisfatta. Nessun artista è mai pienamente soddisfatto. Se lo è, temo non sia un artista).

Se si scrive, perché farlo male? Nessun testo si ravviva quando l’aggressività o la volgarità vengono espresse con l’uso di parole volgari. Le cosiddette parolacce non animano uno scritto. Se c’è volgarità, deve essere fatta vedere con termini adatti. E se un personaggio arrabbiato parla, lo scrittore non dovrebbe scrivere: Con rabbia disse: “…”. Il dialogo o monologo del personaggio deve, in sé stesso, esprimere la rabbia. Ogni sentimento, cattivo o buono che sia, deve essere mostrato con i numerosi mezzi – semantici e fonici – della lingua.

Per designare una stessa parte del nostro corpo, quella che si trova sopra il collo, noi abbiamo tre parole: “faccia”, “viso” e “volto”. Questi tre termini sono uguali nel significato, ma non nel senso. Hanno infatti un timbro, un suono, un colore molto diversi.

Quindi scriveremo preferibilmente: “L’uomo aveva una faccia truce”, “la mia ragazza ha un viso molto carino” e “il volto della Gioconda di Leonardo è bello nella sua ambiguità”.

In arte non ci sono sinonimi. Lo scrittore capace deve trovare la parola “giusta” all’interno dei vari contesti.

Nel libro che accompagna il mio racconto ho messo un saggio (“I segreti della narrativa Il romanzo e il racconto”) in cui spiego i criteri della buona scrittura, quella che dura negli anni e nei secoli.

Qualcuno mi obbietterà che oggi per pubblicare in fretta un libro conviene scrivere una storia di scottante attualità, possibilmente violenta e piena di particolari inquietanti. Purtroppo è in gran parte vero. Ma quest’opera sarà buona? Sarà degna di essere riletta, e magari conservata nella libreria di casa perché sia letta un’altra volta? Potremo esserne fieri?

Inoltre l’invito a “pubblicare un libro per diventare qualcuno”, che ipnotizza e inganna molte persone, ha un senso? Ogni persona nel mondo è “qualcuno”: ognuno di noi ha dignità, importanza, merito per il fatto che vive.

Io, Cristina Pennavaja (dalla penna tanto “vaja” cioè “varia” che per destino sono diventata scrittrice), non valgo più di una donna che ha studiato poco, non ha fatto ricerche universitarie né è scrittrice. Questa persona probabilmente sa dell’esistenza cose che io non conosco; pratica la vita in modo diverso, forse migliore. Il valore di un essere umano prescinde dalle sue prestazioni letterarie, scientifiche, filosofiche, dal successo nella società e negli affari.

Naturalmente, se la scrittura è diaristica, non richiede uno stile curato. Né è detto che si debba scrivere testi da far pubblicare. Per mia esperienza posso dire che la scrittura davvero terapeutica è quella che si fa di getto. Chi elabora un testo, soprattutto se autobiografico, e vuole farne qualcosa di buono sul piano artistico, si trova a dover risolvere tanti problemi.

Mentre il pittore si serve dei colori e lo scultore di legno, marmo o argilla, chi scrive usa il materiale che utilizza per la comunicazione: la lingua. Questa circostanza – che sembra facilitare l’espressione artistica – implica il rischio di usare i termini del parlare colloquiale quotidiano, che quasi sempre è sciatto, poco curato, imbevuto di banalità o di stereotipi. Gustave Flaubert, mi pare, metteva in guardia gli aspiranti scrittori: si eviti il “numerario comune”, le parole di tutti i giorni. Oggi il nostro parlare è diventato ancora più sciatto, spesso reattivo o compulsivo. Alcune persone usano una parola volgare su cinque. I testi pieni di parolacce non sono vivaci, non sono coraggiosi, non sono attuali. Sono brutti. Questo, per ragioni non morali, bensì espressive, artistiche. A me fa male vedere che moltissimi editori, per vendere bene, pubblicano libri infarciti di parole volgari. D’altro lato, con tristezza, li capisco: il lettore medio quei libri li vuole! E quanti intellettuali li comprano. Inoltre – cosa ancora più mortificante – li prendono per testi “sinceri”, “attuali”, “coraggiosi”, “potenti”: libri in cui si manifesta “la vita vera”. Non sanno quello che dicono. Gli ecologisti e coloro che fanno politica attiva aspirano a un mondo più sano, più pulito, più bello. Bene. Sanifichiamo, curiamo, alimentiamo la bellezza e la salute delle nostre creature. Evitiamo di porgere violenza e stupidità sul vassoio della scrittura.

Un buon testo sempre deve dare sollievo, sorpresa, energia positiva anche quando tratta di cose tragiche e violente (si pensi a Dante Alighieri, a Dostoevskij, allo stesso Céline). Le mie visite in negozi di libri sono spesso tristi. A meno che io non vada a comprare un’opera che ho già deciso di portare nella mia casa, è raro che mi piacciano i romanzi che attraggono il vasto pubblico.

A me interessano non tanto le storie narrate, piuttosto i modi in cui sono narrate. Le svolte e le sorprese per me più belle stanno nelle scelte di stile. Si va a passeggiare volentieri su un prato con erba e fiori, non su un terreno coperto di pietre che fanno male. La narrazione di una violenza, di uno stupro, di una scena morbosa non mi dà eccitazione, ma sconforto e rabbia: mi pare ci bastino la violenza, il sangue, le guerre della vita reale. Neppure interessa – soprattutto nell’esordio – il lamento personale di persone che esigono un’esistenza diversa, se non introduce in una narrazione coinvolgente su tanti aspetti del vivere.

Rifuggo dalle copertine che elogiano la straordinaria “attualità” di un racconto. Nella buona scrittura l’attualità è concetto privo di senso. Attualissimi sono gli scritti degli antichi, che spesso chiamiamo “classici”.

A differenza che nelle discipline scientifiche, nelle quali c’è progresso, in arte non c’è progresso. (L’antica Saffo non è arretrata né meno ricca di un Montale). Ricordiamo che Dante, ineguagliabile, appartiene al Medioevo. Nella letteratura contano i temi eterni della bellezza, sofferenza, guerra e pace, amore, passione, malattia, morte e simili. L’effetto artistico dipende non dalla “attualità” del tema scelto, bensì dai modi in cui il tema è svolto presentato. Se la narrazione è buona avremo un’impressione di freschezza, di coinvolgimento, e vi troveremo magari pensieri nuovi. Ma solo di rado sono nuovi: la novità sta nello stile, nel linguaggio, nello scenario abile e sapiente costruito dallo scrittore. Naturalmente c’è di mezzo l’uso accorto di figure retoriche. La retorica, che oggi viene considerata peggio che una parolaccia, nasce circa tremila anni fa. Nonostante la scuola italiana l’abbia abolita all’inizio del secolo passato per far posto a materie più “moderne”, la téchne retorica regge tutta la letteratura, i nostri discorsi quotidiani e colti; trionfa sulle bancherelle del mercato.

(Tanto meno è fruttuoso che la voce narrante stia a spiegare, nell’incipit, come debba andar presa la vita, oppure la filosofia che sottostà alle sue scelte di vita. Il buon narratore ci attrae non tanto per i pensieri che enuncia, quanto per l’intreccio di una storia in cui i pensieri si fanno realtà, vera e insieme menzognera, della pagina).

Non diciamo con disprezzo: “Questo è un discorso retorico!”. La frase significa “è un discorso discorso”, il che è peggio di una tautologia. Diamoci invece la pena di spiegare che cosa non va o non ci piace in quel discorso. Se gliene contrapponiamo un altro, anche questo non potrà che essere retorico. L’aggettivo “retorico” è una parola ameba, un passe-partout comodo quanto stupido (purtroppo usato da persone che pare siano colte). Rappresenta la superficialità, la pigrizia e la fretta con cui crediamo di sbarazzarci del diverso, di chi ha torto (mentre noi abbiamo ragione).

La letteratura non muta direttamente il mondo; però muta le persone, che fanno il mondo. Scrivere bene, senza servirsi di un linguaggio dannosamente aggressivo, falso o melenso non è solo un problema di letteratura: è un dovere etico e politico. Vogliamo un mondo migliore? Allora mettiamo cura e pazienza nello scriverlo migliore.

E’ una nostra precisa responsabilità.