Danzare fra il buio e la luce Una cura dell’anima – I segreti della narrativa Il romanzo e il racconto

Ordina e acquista il mio libro nelle librerie normali, in quella dell’editore Youcanprint o nelle numerose librerie online. Evita di comprare il testo “Danzare nel buio”: è vecchio e superato!

Il libro, unico nel suo genere, contiene un racconto lungo e un saggio. Il racconto, cui ho dato il titolo “Danzare fra il buio e la luce Una cura dell’anima” narra la storia di due ragazzi (Carlo e Marina) che si innamorano, si sposano e hanno un figlio. Come quasi sempre avviene nella vita, il rapporto matrimoniale incontra tante difficoltà. Marina è passionale, empatica e generosa di parole (è insegnante e scrittrice); Carlo è più razionale, osservatore distaccato, parco di parole (parla parecchio con l’amante-computer, pensa lei). A questo punto chi mi sta leggendo potrebbe dirsi: è una storia di vita come ce ne sono tante. E sbaglierebbe, perché in un buon racconto una storia non deve riportare gli elementi di una vita vissuta. Un racconto di qualità artistica – come ho inteso crearlo – è sempre qualcosa di diverso rispetto alla vita reale; al contempo deve essere vivo, appassionante e nutriente. Danzare fra il buio e la luce presenta dunque pensieri e drammi della famiglia “filtrati” tramite un lavoro che sceglie un linguaggio opportuno, scene significative e un finale inatteso, emozionante e poetico. L’intreccio è colmo di sorprese piccole e grandi, svolte e momenti in cui il lettore si chiederà: come andrà a finire questo legame in cui l’amore si unisce alla malattia, alla noia, al tradimento? Ho lavorato molto per narrare una vita autentica, in cui però il “rumore” di fattori banali è eliminato per far posto a una musica di parole significative, che restino nella mente e nel cuore di chi legge.

Ho scelto di non introdurre molti personaggi (la vitalità di un racconto non si accresce se ce ne sono tanti), privilegiando – accanto a Marina e Carlo – due figure: il figlio Andrea, spesso più saggio dei suoi genitori, e la zia Clara, che si presenta dapprima come una vecchia fissata con i suoi scritti bizzarri e impertinenti… e poi svela di essere molto, molto di più. Ben presto il lettore si trova coinvolto in una rete di memorie, trasalimenti che giungono dal passato per restare fermi un poco, nell’incertezza e nell’attesa. Marina si innamora del giovane Nino, che ha una fidanzata brutta e sgraziata. Ma le carte si spaiano, il presente adesso gioioso della donna oscilla e – tra episodi ora buffi ora tragici – prende un corso inaspettato.
Alla fine le persone hanno altri colori, altri sogni e bisogni. E il finale, imprevisto, lascerà il lettore appagato della buona riuscita del racconto, che dà sollievo rinunciando a un facile happy end.

Ho lavorato con enorme impegno a questo testo: l’avevo iniziato nel 1998, poi lasciato e ripreso fra il 2021 e il 2022. A me non interessa narrare una storia per chi legge allo scopo di “far passare il tempo” (ci pensa ben lui a passare), e – una volta terminato il libro – lo mette via e non ci pensa più. Mi sono sforzata, con fatica dolore e coraggio, di scrivere una storia su base autobiografica che fosse insieme scorrevole e musicale, semplice e ricca di sensi. Lo scrittore Giovanni Mariotti (autore del capolavoro Storia di Matilde) già nel 1998 l’aveva trovata buona; ma le circostanze della mia vita e la volontà di renderla ancora migliore mi hanno indotto a trasformarla profondamente. Nel racconto ci sono tanti elementi connessi alla spiritualità, alla consapevolezza di sé, alla sapienzialità di testi moderni e antichi. Ma non ho voluto fare della mia storia uno scritto filosofico, tantomeno proporre una morale. Il lettore sensibile avvertirà che lo scopo primo è quello di dare bellezza, fare arte.

Il secondo testo “I segreti della narrativa Il romanzo e il racconto” mette a disposizione le mie esperienze come insegnante nella ‘Casa della scrittura’, come traduttrice e scrittrice, a chi vuole saper distinguere tra un testo semplice e uno semplicistico (pochissime persone, anche colte, sono capaci di distinguere). Questo scritto interesserà non solo chi vuole saggiare e migliorare la propria scrittura: servirà a leggere meglio, in modo più consapevole (per un risparmio di energie, tempo e denaro). Tramite l’analisi e il commento di vari testi in prosa (Franz Kafka, Virginia Woolf, Alfred Polgar, Giuseppe Pontiggia, Silvio D’Arzo, Carlo Coccioli, Ivan Della Mea, Susanna Tamaro, Elena Biltchinskaia, altri) evidenzio e nomino gli errori che devono essere evitati in una scrittura che aspira alla qualità letteraria. In particolare, ritengo molto importante la mia traduzione dell’esordio del capolavoro di Kafka, Die Verwandlung (La metamorfosi), che è stato finora del tutto svisato, con danni all’interpretazione di tutta l’opera di Kafka (nell’esordio manca la parola “insetto”; lo scarafaggio è brutta invenzione di chi mette il disgusto nello scritto, che ne è privo).

Il racconto artistico non è un susseguirsi di sequenze, come gli allievi sentono dire a scuola: è un compenetrarsi di parole “giuste”, di figure retoriche vivaci e mai esagerate, di accorte strategie di stile (timbro, colori, melodia e armonia). Un racconto è paragonabile a un corpo umano vivo: in esso ogni parte deve armonizzarsi e corrispondere alle altre. Per questo, stendere un buon racconto è più difficile che costruire un buon romanzo (nel quale sono ammesse cadute, disarmonie e stacchi). Nel saggio affronto varie questioni di linguaggio e anche di tematiche, narro qualche segreto del mio lungo cammino come traduttrice, saggista, narratrice, poetessa, pianista per diletto, corista e svelo alcuni particolari delle mie composizioni forse più belle (in che modo ho concepito un esordio, uno sviluppo e un finale).

Per chi fosse interessato a sapere come ho potuto creare il racconto Danzare fra il buio e la luce, fornisco qualche criterio. Il titolo recita infatti I segreti della narrativa, e io spiego che cosa ho mantenuto e che cosa invece ho abbandonato affinché il mio testo, che iniziai a scrivere nell’onda di vicende familiari dolorose e pesanti, nulla abbia di pesante. Questo significa eliminare il rumore e fare musica. Intrattenere e anche divertire, però evitando espressioni violente o melense, per nutrire lo spirito.

Buona lettura!

Consigli per scrivere bene

Se non è familiare, diretto ad amici o parenti per scopi pratici o non è un testo di diario, ogni scritto dovrebbe essere composto con cura. Se si usano le prime parole che vengono in mente per esprimere una scena vivace, il testo quasi certamente non sarà vivace. Questo, perché la vita della pagina non è, non può essere la vita della vita reale. Anche il tempo sulla pagina scritta cambia: si dilata o si abbrevia.

Perciò – a meno di non essere veri genii – per produrre un racconto o un romanzo di buona qualità dobbiamo vagliare le parole (in arte non ci sono sinonimi; lo scrittore deve trovare il termine giusto in ogni contesto). Certo, se si scrive per riempire un foglio bianco si evita la fatica, ma il risultato ne risentirà.

Io non ho alcuna vergogna a dire che ci ho messo quarant’anni per scrivere piuttosto bene. Eppure, anche ora ho bisogno di parecchio tempo per stendere un racconto che mi soddisfi davvero. L’ultimo racconto pubblicato, dal titolo “Danzare fra il buio e la luce Una cura dell’anima”, l’avevo iniziato ventiquattro anni anni fa, e quasi dimenticato. All’inizio del 2022 l’ho ripreso e cambiato moltissimo (è su base autobiografica, e quanto è mutata la mia vita da allora!). Dopo tanta fatica sono contenta: ho fatto un buon lavoro. (Ma non soddisfatta. Nessun artista è mai pienamente soddisfatto. Se lo è, temo non sia un artista).

Se si scrive, perché farlo male? Nessun testo si ravviva quando l’aggressività o la volgarità vengono espresse con l’uso di parole volgari. Le cosiddette parolacce non animano uno scritto. Se c’è volgarità, deve essere fatta vedere con termini adatti. E se un personaggio arrabbiato parla, lo scrittore non dovrebbe scrivere: Con rabbia disse: “…”. Il dialogo o monologo del personaggio deve, in sé stesso, esprimere la rabbia. Ogni sentimento, cattivo o buono che sia, deve essere mostrato con i numerosi mezzi – semantici e fonici – della lingua.

Per designare una stessa parte del nostro corpo, quella che si trova sopra il collo, noi abbiamo tre parole: “faccia”, “viso” e “volto”. Questi tre termini sono uguali nel significato, ma non nel senso. Hanno infatti un timbro, un suono, un colore molto diversi.

Quindi scriveremo preferibilmente: “L’uomo aveva una faccia truce”, “la mia ragazza ha un viso molto carino” e “il volto della Gioconda di Leonardo è bello nella sua ambiguità”.

In arte non ci sono sinonimi. Lo scrittore capace deve trovare la parola “giusta” all’interno dei vari contesti.

Nel libro che accompagna il mio racconto ho messo un saggio (“I segreti della narrativa Il romanzo e il racconto”) in cui spiego i criteri della buona scrittura, quella che dura negli anni e nei secoli.

Qualcuno mi obbietterà che oggi per pubblicare in fretta un libro conviene scrivere una storia di scottante attualità, possibilmente violenta e piena di particolari inquietanti. Purtroppo è in gran parte vero. Ma quest’opera sarà buona? Sarà degna di essere riletta, e magari conservata nella libreria di casa perché sia letta un’altra volta? Potremo esserne fieri?

Inoltre l’invito a “pubblicare un libro per diventare qualcuno”, che ipnotizza e inganna molte persone, ha un senso? Ogni persona nel mondo è “qualcuno”: ognuno di noi ha dignità, importanza, merito per il fatto che vive.

Io, Cristina Pennavaja (dalla penna tanto “vaja” cioè “varia” che per destino sono diventata scrittrice), non valgo più di una donna che ha studiato poco, non ha fatto ricerche universitarie né è scrittrice. Questa persona probabilmente sa dell’esistenza cose che io non conosco; pratica la vita in modo diverso, forse migliore. Il valore di un essere umano prescinde dalle sue prestazioni letterarie, scientifiche, filosofiche, dal successo nella società e negli affari.

Naturalmente, se la scrittura è diaristica, non richiede uno stile curato. Né è detto che si debba scrivere testi da far pubblicare. Per mia esperienza posso dire che la scrittura davvero terapeutica è quella che si fa di getto. Chi elabora un testo, soprattutto se autobiografico, e vuole farne qualcosa di buono sul piano artistico, si trova a dover risolvere tanti problemi.

Mentre il pittore si serve dei colori e lo scultore di legno, marmo o argilla, chi scrive usa il materiale che utilizza per la comunicazione: la lingua. Questa circostanza – che sembra facilitare l’espressione artistica – implica il rischio di usare i termini del parlare colloquiale quotidiano, che quasi sempre è sciatto, poco curato, imbevuto di banalità o di stereotipi. Gustave Flaubert, mi pare, metteva in guardia gli aspiranti scrittori: si eviti il “numerario comune”, le parole di tutti i giorni. Oggi il nostro parlare è diventato ancora più sciatto, spesso reattivo o compulsivo. Alcune persone usano una parola volgare su cinque. I testi pieni di parolacce non sono vivaci, non sono coraggiosi, non sono attuali. Sono brutti. Questo, per ragioni non morali, bensì espressive, artistiche. A me fa male vedere che moltissimi editori, per vendere bene, pubblicano libri infarciti di parole volgari. D’altro lato, con tristezza, li capisco: il lettore medio quei libri li vuole! E quanti intellettuali li comprano. Inoltre – cosa ancora più mortificante – li prendono per testi “sinceri”, “attuali”, “coraggiosi”, “potenti”: libri in cui si manifesta “la vita vera”. Non sanno quello che dicono. Gli ecologisti e coloro che fanno politica attiva aspirano a un mondo più sano, più pulito, più bello. Bene. Sanifichiamo, curiamo, alimentiamo la bellezza e la salute delle nostre creature. Evitiamo di porgere violenza e stupidità sul vassoio della scrittura.

Un buon testo sempre deve dare sollievo, sorpresa, energia positiva anche quando tratta di cose tragiche e violente (si pensi a Dante Alighieri, a Dostoevskij, allo stesso Céline). Le mie visite in negozi di libri sono spesso tristi. A meno che io non vada a comprare un’opera che ho già deciso di portare nella mia casa, è raro che mi piacciano i romanzi che attraggono il vasto pubblico.

A me interessano non tanto le storie narrate, piuttosto i modi in cui sono narrate. Le svolte e le sorprese per me più belle stanno nelle scelte di stile. Si va a passeggiare volentieri su un prato con erba e fiori, non su un terreno coperto di pietre che fanno male. La narrazione di una violenza, di uno stupro, di una scena morbosa non mi dà eccitazione, ma sconforto e rabbia: mi pare ci bastino la violenza, il sangue, le guerre della vita reale. Neppure interessa – soprattutto nell’esordio – il lamento personale di persone che esigono un’esistenza diversa, se non introduce in una narrazione coinvolgente su tanti aspetti del vivere.

Rifuggo dalle copertine che elogiano la straordinaria “attualità” di un racconto. Nella buona scrittura l’attualità è concetto privo di senso. Attualissimi sono gli scritti degli antichi, che spesso chiamiamo “classici”.

A differenza che nelle discipline scientifiche, nelle quali c’è progresso, in arte non c’è progresso. (L’antica Saffo non è arretrata né meno ricca di un Montale). Ricordiamo che Dante, ineguagliabile, appartiene al Medioevo. Nella letteratura contano i temi eterni della bellezza, sofferenza, guerra e pace, amore, passione, malattia, morte e simili. L’effetto artistico dipende non dalla “attualità” del tema scelto, bensì dai modi in cui il tema è svolto presentato. Se la narrazione è buona avremo un’impressione di freschezza, di coinvolgimento, e vi troveremo magari pensieri nuovi. Ma solo di rado sono nuovi: la novità sta nello stile, nel linguaggio, nello scenario abile e sapiente costruito dallo scrittore. Naturalmente c’è di mezzo l’uso accorto di figure retoriche. La retorica, che oggi viene considerata peggio che una parolaccia, nasce circa tremila anni fa. Nonostante la scuola italiana l’abbia abolita all’inizio del secolo passato per far posto a materie più “moderne”, la téchne retorica regge tutta la letteratura, i nostri discorsi quotidiani e colti; trionfa sulle bancherelle del mercato.

(Tanto meno è fruttuoso che la voce narrante stia a spiegare, nell’incipit, come debba andar presa la vita, oppure la filosofia che sottostà alle sue scelte di vita. Il buon narratore ci attrae non tanto per i pensieri che enuncia, quanto per l’intreccio di una storia in cui i pensieri si fanno realtà, vera e insieme menzognera, della pagina).

Non diciamo con disprezzo: “Questo è un discorso retorico!”. La frase significa “è un discorso discorso”, il che è peggio di una tautologia. Diamoci invece la pena di spiegare che cosa non va o non ci piace in quel discorso. Se gliene contrapponiamo un altro, anche questo non potrà che essere retorico. L’aggettivo “retorico” è una parola ameba, un passe-partout comodo quanto stupido (purtroppo usato da persone che pare siano colte). Rappresenta la superficialità, la pigrizia e la fretta con cui crediamo di sbarazzarci del diverso, di chi ha torto (mentre noi abbiamo ragione).

La letteratura non muta direttamente il mondo; però muta le persone, che fanno il mondo. Scrivere bene, senza servirsi di un linguaggio dannosamente aggressivo, falso o melenso non è solo un problema di letteratura: è un dovere etico e politico. Vogliamo un mondo migliore? Allora mettiamo cura e pazienza nello scriverlo migliore.

E’ una nostra precisa responsabilità.